Sguardi caleidoscopici. Sulla realtà. Il Piccolo si è calato nelle viscere del mondo. Componendo una stagione mosaico che molto si interroga sui linguaggi per raccontare il presente. Senza tuttavia sacrificare alcuni grandi nomi da locandina che non dispiaceranno a scolaresche e abbonati. È un fatto che la direzione di Claudio Longhi abbia aperto le finestre allo Strehler. Portando un respiro teorico (un pensiero) che guarda al nuovo ma non tradisce la natura istituzionale (la tradizione) del Piccolo.
Longhi, che stagione sarà?
"Credo che si esplichi nel titolo: “La misura delle cose“. Al centro c’è il rapporto con la realtà, oggi un tema molto caro agli artisti, che si interrogano su come dare parola al reale. Tanto che alcuni spingono nel tentativo di superare l’astrazione artistica e lo iato fra rappresentazione e realtà. Una sensibilità che ritroviamo in Sébastien Foucault o Christiane Jatahy, ma anche nell’operazione di Davide Carnevali o nella fantascienza di Caroline Guiela Nguyen".
Altri invece accentuano l’aspetto rappresentativo.
"Esattamente, lavorando sul teatro solo come riflesso della realtà. E qui è evidente l’esempio di “M Il figlio del secolo“ di Massimo Popolizio. Ma in tutti si percepisce la volontà di cercare un linguaggio all’altezza del presente. Magari come faceva Calvino, di cui presenteremo “Il barone rampante“ di Riccardo Frati. Che per raccontare l’Italia Anni ’50 usava lo specchio deformante delle grandi allegorie. È anche una stagione che vuole essere un insieme di parti, la comunità del Piccolo è ampia e noi rimaniamo un Teatro d’Arte per Tutti, come dimostra la presenza di Martone o l’atteso ritorno di Toni Servillo. Chiunque può trovare titoli che sente affini ma con la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo".
Che momento è per il settore? "Di luci e di ombre. Ci sono alcune criticità, a partire dalle abitudini cambiate del pubblico e dai problemi energetici. Allo stesso tempo credo che la crisi possa diventare una grande opportunità per il teatro di tornare alla sua funzione pubblica di aggregatore della comunità, di luogo che consente di sviluppare un pensiero sul presente".
Gli artisti come reagiscono di fronte a questa necessità?
"È un panorama sfrangiato, di individualità, dove si fatica a generalizzare. Ma certo come tutti noi, gli artisti vivono un disagio profondo, un disorientamento. Qualche pirandelliana corda si è spezzata. Poi ognuno metabolizza in modo diverso. C’è chi ripiega sui propri bisogni e chi, al contrario, mostra una volontà di aprirsi all’esterno. Al di là della confusione, rimane un aspetto effettivamente nodale nella relazione con il pubblico".
Come le sembra il sistema a Milano?
"C’è una comunità teatrale più in dialogo con il resto della società, rispetto ad altre città in cui ho lavorato. E in questo riconosco l’appartenenza di Milano a un orizzonte europeo: il rapporto con la scena è forte e strutturato come a Parigi o a Berlino. Non è un caso che il teatro pubblico sia nato qui, grazie a queste cause storico-sociali. Ci sono potenzialità che dobbiamo essere in grado di cogliere, per fare un nuovo passo in avanti. Come nel Dopoguerra".
Da direttore ha sacrificato regìa e insegnamento: ne sente la mancanza?
"La parte più curatoriale del mio lavoro ha in sé funzioni proprie della regìa e della pedagogia, non credo sia un modo per autorisarcirmi. La stagione può essere vista come un racconto. E per quanto riguarda la didattica, mi viene in mente un pensiero di Luigi Squarzina che sottolineava come il ruolo della direzione significhi anche prendersi in carico la formazione culturale di una comunità. Detto questo, aula e sala prove mi mancano tantissimo...".