Milano, 5 giugno 2015 - Dopo il successo del mixtape “Immortale” il giovane Achille Lauro torna a far parlare di sé con “Dio C’è”, il suo primo album ufficiale. Il look è diverso rispetto a un anno fa, qualche tatuaggio in più sulla pelle e un bel po’ di concerti alle spalle. Lo stile dissacrante (o consacrante?) e l’atteggiamento di chi se ne infischia di mode e tendenze invece è rimasto lo stesso. L’attitudine è quella della rockstar senza tempo ma, che piaccia o no, il giovane artista romano oggi rappresenta una delle figure più promettenti del panorama rap in Italia o comunque uno di quei personaggi che, complice il linguaggio rude e anticonformista preso in prestito dalla strada, può davvero contribuire ad invertire la rotta di uno scenario hip hop troppo spesso monotono e a rischio nausea. Tredici le tracce (diciotto nella versione digitale) in grado di mettere a repentaglio i timpani più delicati ma che di certo non mancano di raccontare storie autentiche. E quello che ormai viene definito il “principe di Roccia Music” di storie da raccontare ne ha un bel po’.
Dai capelli ossigenati e al volto semicoperto ne è passato di tempo. Chi è oggi Achille Lauro? “Sono sempre lo stesso, con moltissimi impegni in più e la casella delle e-mail già piena al mattino. In più ho un team eccezionale al mio fianco, un sacco di gente che lavora con me. Per quanto riguarda l’aspetto non potevo più nascondere la faccia. A questo punto le cose si sono fatte serie: ho intenzione di dare il mio contributo, di esprimere qualcosa. Caratterialmente invece sono rimasto lo stesso ragazzo estroverso ed iperattivo di allora, con i miei soliti incredibili alti e bassi. E sottolineo ‘incredibili’”.
E nei confronti dei rapper italiani nutri la stessa antipatia di un anno fa? “Sì mi stanno ancora sulle scatole. Rimango dell’idea che la loro musica non trasmetta nulla e che il loro sia un atteggiamento inutile e sbagliato. Non li capisco proprio. Mi lasciano il vuoto più assoluto. Ovviamente esistono delle rare eccezioni ma in linea di massima non cambio la mia opinione in proposito”.
In effetti nel brano “Young King” sostieni che “la musica in Italia è una brutta figura, con delle belle basi e una brutta stesura…” “E’ assolutamente così”.
Veniamo al disco. Dopo “Achille Idol – Immortale” anche in “Dio c’è” ritornano i riferimenti a Dio. Come mai hai rinnovato questa scelta? “Questa volta si tratta di una scelta un po’ diversa, più matura. Se nell’album precedente prevaleva una certa ironia, in questo progetto ho dato maggiore risalto al lato più serio della mia personalità. ‘Dio c’è’ è l’espressione provocatoria che utilizzo per far capire quanto mi ritenga fortunato ad avere avuto la possibilità di emergere. Una possibilità che in pochi hanno e che quando arriva occorre tenersela ben stretta”.
L’album si contraddistingue per la forte sperimentazione sonora: “Young King” è marcatamente hardcore mentre “Ghetto Dance” fonde alla dance un sound elettronico. Con “Dio c’è” pensi di avere trovato finalmente il “tuo suono”? “Sì, in questo disco ho trovato il suono che mi calza alla perfezione. I produttori che hanno lavorato con me sono dei grandissimi professionisti. Si tratta di un sound estremamente innovativo con le strumentali su dei beat un po’ ambient e dal sapore europeo. Già dall’ascolto delle basi avevo capito che questo sarebbe stato un album fuori dal comune. Un album davvero pazzesco!”.
A livello di contenuti ogni traccia è una fotografia di stati d’animo: a volte estremamente intimi, altre profondamente violenti. Non hai paura di metterti troppo a nudo? “Parlare di me e della mia vita non mi spaventa. Nel disco racconto molto del mio passato ma penso che quando chi ti ascolta riesca in qualche modo a rispecchiarsi in quello che dici allora hai vinto”.
Pensi che la definizione di street-rap d’autore si addica alla tua musica? “Ho sempre odiato qualsiasi tipo di etichetta ma sono contento di riuscire ad esprimere attraverso i miei testi dei concetti che vanno oltre alle solite cavolate che si sentono in giro”.
Si era capito fin da subito che eri un po’ un “outsider” della scena rap… “Sono così ‘outsider’ al punto che quando mi chiedono se faccio rap preferirei rispondere che faccio musica pop. Vedi, gli artisti che appartengono al mondo del mainstream tendono ad adagiarsi così tanto sulla loro schifosissima musica di successo che ormai il pubblico è assuefatto, pronto a mangiarsi qualsiasi cosa. Quello che questi artisti dovrebbero fare, invece, sarebbe proprio il contrario: scardinare questo sistema per portare a un cambiamento. E avrebbero tutto il potere per farlo”.
A proposito di artisti, all’interno dell’album ci sono pochissime collaborazioni: l’imprescindibile Marracash e il tuo conterraneo Gemitaiz. Come mai hai scelto di “correre” praticamente da solo? “Con questo disco ho voluto dar vita a un progetto estremamente personale. Qualcosa che fosse in grado di sorprendere. Lavorandoci mi sono accorto che se avessi ospitato altri rapper non avrei potuto rendere così unico il mio messaggio perciò ho deciso di focalizzare l’attenzione solamente sulla mia musica. Intendiamoci, avrei potuto farlo tranquillamente, ma ho preferito di no. In compenso mi sono cimentato insieme a veri musicisti con tanto di chitarre, bassi e batterie… Tutto quanto”.
Quanto tempo c’è voluto per confezionare l’album? “Ho lavorato duramente per un anno. In questi mesi ho registrato più di sessanta brani per poi focalizzarmi sui migliori e ne ho tenuti 18. A livello di scrittura ho bisogno di restare da solo mentre per quanto riguarda la parte musicale mi sono confrontato costantemente con la mia quadra di produttori: Frenetik, Orange3, Banf e Boss Doms. Il tutto poi passava sempre sotto la supervisione dei fidatissimi Marracash e Dj Shablo”.
E ora sei impegnato proprio con lo Status Tour di Marracsh? “Esatto. Oggi (5 giugno, ndr.) sarò con lui a Milano sul paco del Carroponte. Dopo l’estate, invece, partirà il ‘Dio c’è Tour”.
francesca.nera@ilgiorno.net