ALESSANDRO LUIGI MAGGI
Sport

Il personaggio. Galanda: "Ero l’unicum, oggi sarei uno dei tanti»

L’ex ala azzurra è stato tra i primi “lunghi“ a tirare da tre: "Gioco e rapporti con i tifosi sono diversi"

Giacomo Galanda, a sinistra, insieme al presidente di LegaBasket Umberto Gandini

Giacomo Galanda, a sinistra, insieme al presidente di LegaBasket Umberto Gandini

Giacomo “Gek“ Galanda ha deciso di raccontare la sua storia in un libro. Un viaggio tra ricordi, aneddoti e riflessioni che ha preso forma nella biografia “La mia vita a spicchi“, che verrà presentata il 22 marzo alle 12.30 alla Sala Bogotà, in Via Moncuccio 35 a Milano, nell’ambito di Book Pride.

Come è nata l’idea di scrivere un libro?

"Negli anni in tanti mi avevano chiesto di farlo, ma non avevo mai trovato il momento giusto. Avvicinandomi ai 50 anni, mi ha chiamato un editore che conoscevo e stavo per dire di no. Ma mi sono detto: o lo faccio adesso, o non lo farò mai più. Il libro è nato parlando con gli amici, riportando dialoghi veri, aprendo scatoloni di ricordi, foto e lettere. È stato un percorso bellissimo, fatto con persone importanti della mia vita come Omar Pedrini, Bulleri, Recalcati, Dino e Andrea Meneghin".

Quanto è stato difficile rileggere il proprio passato?

"Molto impegnativo. Fermarsi e ripercorrere certi momenti, rimettere ordine nei ricordi e racchiuderli in un libro è stato un esercizio di introspezione. Ma ha avuto anche un significato più grande: parte del ricavato andrà a Dynamo Camp, di cui sono ambasciatore".

Com’è cambiato il rapporto tra i giocatori e i tifosi rispetto ai tuoi tempi?

"Ai miei tempi non c’erano i social, ma avevamo forum e siti dove dialogavamo con i tifosi. Il rapporto era più diretto, le risposte più profonde. Ora tutto è più freddo e calcolato. Io non potrei mai sopportare una telecamera nello spogliatoio. C’è una cultura dell’immagine che ha cambiato la comunicazione".

Anche il gioco è cambiato?

"Sì, la transizione era già in corso ai miei tempi. Io ero un unicum, oggi sarei uno dei tanti. A Siena giocavo lontano da canestro per creare spazi agli esterni. Ora il basket è ancora più perimetrale, si gioca quasi senza lunghi puri, ma resto convinto che il gioco spalle a canestro sia una chiave per vincere".

Rimpianti a fine carriera?

"Nessuno. Sono strafelice di come ho iniziato, finito e di tutto ciò che ho vissuto. Ho dato tutto fino all’ultimo. Nell’ultima stagione a Pistoia giocavamo in otto, ma abbiamo costruito qualcosa di speciale e portato l’Olimpia poi campione d’Italia sino alla bella. Ho finito col tutore al ginocchio dopo un infortunio, ma ho dato tutto. Non ho pensato fosse l’ultima partita, l’ho realizzato alla sirena".

Ha mai pensato alla NBA?

"Ai miei tempi era un sogno lontano per un giocatore italiano. A me offrivano un sacco di soldi per restare in Italia, ma volevo giocare e sono andato negli Stati Uniti in un periodo in cui nessuno lo faceva (al liceo, ndr). Oggi è diverso, c’è più mobilità, ma il mio consiglio ai giovani è sempre seguire la propria strada e cogliere le opportunità, anche se scomode o controcorrente".

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