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Pavia, mazzette del pallone: "Noi vi paghiamo ma nostro figlio gioca"

Genitori pronti a tutto pur di rendere felice il proprio ragazzo. Ma il club non ci sta e dice 'no' allo sporco affare di GIULIO MOLA

Calcio (foto d'archivio)

Pavia, 4 novembre 2015 - «Io vi pago e voi lo fate giocare». Funziona più o meno così nelle periferie del calcio, dove il pallone si macchia di fango, dove la passione viene barattata col denaro. Dove non c’è spazio per il talento puro ma solo per “loschi“ affari ed interessi personali. Le chiamano le “mazzette del pallone“, un malcostume consolidatosi nel tempo e ora quasi una prassi in periodi di congiuntura economica negatia. Della serie: «Io genitore offro un bel po’ di soldi, tu società fai giocare mio figlio». Anche se il ragazzo è scarso.

La cosa si è ripetuta, ma questa volta il finale è diverso. Per certi aspetti clamoroso: perché il club in questione, il Pavia, ha detto no allo sporco affare. Anzi, per voce del suio direttore generale Nicola Bignotti, ha deciso di rendere noto il fattaccio, dopo che i genitori di un ragazzo si erano offerti di fare da sponsor alla squadra in cambio del tesseramento (nella formazione Allievi) del loro figlio, cui sarebbero dovute andare anche la fascia di capitano e maglia numero 10. Dopo aver incassato un primo rifiuto dal dirigente, papà e mamma avevano contattato altri tesserati della società. Ma il giochino è stato subito scoperto. «Può sembrare assurdo ma è successo - racconta Bignotti -. Spesso accade il contrario, ovvero che certe società chiedano sponsorizzazioni ai papà dei ragazzi, confidando sull’amore paterno che non è mai cieco ed è disposto a tutto. Adesso siamo di fronte a qualcosa che è ancor più brutta e triste, perché se un genitore utilizza certi escamotage per raggiungere il proprio interesse vuol dire che siamo messi male».

Il Pavia, invece, ha dato una lezione di grande civiltà a tutto il sistema: «Fortunatamente - prosegue il dg - lavoro in una società dove l’aspetto sportivo ed educativo devono essere gli unici metri di giudizio. La mia proprietà in tal senso ha dato segnali molto seri: con noi certe persone ci hanno provato e sono state rimpallate. Perché a Pavia gioca solo chi è ritenuto capace, e ci sono figure preposte a fare queste scelte usando parametri relativi anche al comportamento. Sa cosa ci ha dato maggiormente fastidio? Vedere i genitori insistere, tentare in tutti i modi di convincerci. Pretendevano e continuavano a fare pressione, anche con altri dirigenti del nostro club. Ma noi non ci piegheremo e continueremo a rimarcare l’etica della proprietà, con un settore giovanile forte, così come deve essere la prima squadra. Quel che ho visto è una cosa schifosa, anche perche lo ritengo offensivo nei confronti dei nostri collaboratori che sono persone serissime». Non è facile dire «no grazie, non ci interessa», quando di fronte hai persone che ti offrono migliaia di euro per vedere in campo un ragazzino di 12 anni. «Ma noi dirigenti dobbiamo essere i primi a dare il buon esempio - conclude Bignotti -. E a Pavia siamo orgogliosi di lavorare tutti uniti in un’unica direzione». Tutto ciò, però, non cancella il problema. Sempre più spesso si vedono dei ragazzi dalle discutibili doti tecniche giocare persino in Lega Pro, tra i professionisti. Si dice che siano raccomandati o “figli di papà”, quelli che, come detto, pagano per essere in campo. Purtroppo siamo in un momento particolare. Nella Lega Nazionale Dilettanti sono obbligati a far giocare ragazzi giovani, che spesso si credono già calciatori e che appena escono dalle annate considerate “giovani” non trovano più spazio. In Lega Pro chi fa giocare i giovani riceve dei contributi dalla lega stessa. Il talento, però, è roba per pochi. Troppo spesso serve altro per indossare una maglia. E qui i piedi c’entrano poco. 

di GIULIO MOLA