Milano, 7 novembre 2020 - La discoteca, alle sei di sera, è immersa nel buio. L’assenza totale di luci, in quello spicchio di periferia, colpisce anche i Pooh quando scendono dall’auto per entrare nel locale e concentrarsi nel sound check che precede il concerto. Il palco, con le quattro grandi vele spiegate sul fondo, è già allestito. Stefano testa i nuovi suoni della batteria elettronica; Dodi imbraccia la chitarra e, sceso dal palco, segue il perimetro della sala continuando a pizzicare le corde. Poi salgono Roby e Red e sulle prime note di «Selvaggio» si accendono i lampeggianti blu che tre ore più tardi coloreranno l’inizio del concerto. Poco dopo, è proprio Stefano a venirmi incontro e ad accompagnarmi dagli altri per un’intervista. La prima di una lunga serie.
Dei tanti incontri, molti dei quali hanno portato alla realizzazione di un libro per il quarantennale dei Pooh, me ne torna in mente soprattutto uno. Quello nella hall di un albergo di Como dove Stefano D’Orazio mi consegna un vecchio faldone grigio e azzurro che ha portato da casa. Una sorta di scrigno che raccoglie la storia dei Pooh scritta attraverso materiale strettamente privato: le fatture e le ricevute custodite dal 1973, l’elenco delle spese per gli effetti speciali, il depliant del laser acquistato nel 1978. E, ancora, gli schizzi delle scenografie buttati giù a penna su fogli di notes. Infine, i quaderni. I quaderni formato grande con tutte le pagine numerate a biro: ogni foglio un giorno dell’anno. E sulla carta gli appunti dei progetti, delle spese sostenute dal gruppo, dei panini consumati durante i tour, dei metri di fondale ordinati in America. In una pagina, sopra un elenco di voci, Stefano ha appuntato: «Cose da pensare». Non è un caso. D’Orazio, entrato nei Pooh nel 1971 in sostituzione di Valerio Negrini, non era solo il batterista del gruppo. Ne era il manager, l’organizzatore dei tour, il pianificatore dei programmi studiati e approvati dai «fab four» della canzone italiana durante le loro celebri e riservatissime riunioni.
Per anni ai Pooh, durante le conferenze stampa, è stato chiesto spesso quale segreto ci fosse dietro la longevità del gruppo e un successo inossidabile. Mi piace ricordare quell’incontro a Como e le carte di quel faldone perché è lì dentro che, credo, possa esserci la risposta a quella domanda. La meticolosità di Stefano D’Orazio rispecchia il rigore professionale che per cinquant’anni ha caratterizzato la genesi e l’epopea della musica dei Pooh. A ognuno dei quattro un ruolo, ma poi sempre uniti e alla pari sulla scena. Le parti al flauto traverso, in fondo, consentivano a D’Orazio di non rimanere fuori dalla scena quando la batteria non era nella partitura dei brani e di stare comunque vicino agli altri, a fronte palco. Poi il lavoro sui testi e l’impareggiabile ironia, che a volte li caratterizzava, con stile. Un esempio su tutti, i brani sulla vita da Pooh, da «Pronto buongiorno è la sveglia» a «Siamo ancora sulla strada».
Con ironia si era raccontato anche in un’autobiografia. E nello stesso modo era riuscito, due anni fa, a immortalare in un libro la sua scelta di sposarsi a 69 anni. Perché aveva lasciato i Pooh? Per sfuggire alla routine. Certo non alla passione per la musica e al legame con gli altri tre compagni d’avventura. Il suo ultimo lavoro, un’opera ispirata a Parsifal, lo vedeva a fianco di Roby Facchinetti proprio in questi mesi. A Bergamo, dove aveva vissuto a lungo, sulle note di «Rinascerò rinascerai», il suo ultimo messaggio di speranza.