GIULIO MOLA
Cronaca

Gallarate, bambino bullizzato dalla squadra di calcio e cacciato via chat: “Gli urinavano addosso”

Un papà denuncia: “A mandare via mio figlio è stato il suo capitano. Lo hanno mortificato e gli hanno distrutto l’autostima”

Sono tanti i giovanissimi calciatori che smettono di giocare dopo grandi delusioni

Inseguire un pallone che rotola è il gesto più naturale di tanti bambini/ragazzi. Ma prendere a pedate il desiderio di sognare è un comportamento difficile da accettare. Vero, non tutti hanno talento e solo uno ogni quattromila giovanotti iscritti alle scuole calcio ce la fa ad arrivare in club professionistico, però bisogna anche saper comunicare al diretto interessato che non rientra più nei piani della società. Soprattutto se giovanissimo.

In Lombardia, dove sono oltre 100mila i tesserati del Settore Giovanile Scolastico, siamo passati dal “licenziamento” dei “pulcini” (9-10 anni) per mail, alle non conferme di adolescenti per "assenze agli allenamenti dovute ad impegni scolastici", come gli esami di riparazione di settembre. Pensavamo di aver toccato il fondo, e invece no. "Per me è stato mortificante sapere da mio figlio non tanto che è stato fatto fuori dal gruppo ma la modalità: il suo capitano gli ha detto che non era confermato e poteva trovarsi un’altra squadra".

Si, avete capito bene. Nessuna mail e neanche una telefonata. Nessun colloquio con un dirigente o chiarimenti con il mister (quelli che, a questa età, dovrebbero avere anche il ruolo di istruttori-educatori). Ci pensa un ragazzino. Un coetaneo dell’escluso. Di più, il suo capitano.

A raccontarci la storia è il signor G., un manager che ben conosce il calcio ad altissimi livelli, ma che è pure papà di un giocatore di 14 anni. "Mio figlio giocava nella squadra di una scuola calcio d’elitè della provincia di Varese, zona di Gallarate - racconta il genitore fra l’imbarazzo e la delusione -. Un compagno di squadra gli ha detto che non era stato confermato, invitandolo anche ad uscire dalla chat del gruppo. E per me, da padre e uomo di sport, questo sistema non può andar bene".

Va oltre il papà. Focalizzandosi sul dialogo inesistente col mondo degli adulti. "Un chiarimento con la società? L’ho cercato, ho provato a dire che è normale in questa fase vedere ragazzi più avanti rispetto ad altri, ma sarebbe anche giusto lavorare sull’autostima. E invece solo tanta mortificazione. Nessuno ha avuto il coraggio di dire certe cose in faccia a mio figlio, invece bisognerebbe essere costruttivi e dialogare, anche quando il ragazzo è il più “scarso”. Soprattutto se le differenze tecniche non sono evidenti. Io invece non ho mai visto questa sensibilità e quando l’ho fatto presente in società, con un allenatore che urlava troppo, mi è stato detto che non aveva senso la mia lamentela, quella di un “genitore frustrato“ perché il figlio non giocava".

Non è finita. "Ma la vera tristezza per mio figlio è stata vedere nello spogliatoio il ragazzo più prepotente che gli svuotava lo shampoo, o peggio ancora chi sotto la doccia gli urinava addosso... Siamo stati tre anni in quella società e non esagero quando affermo che mio figlio è stato bullizzato. L’hanno persino spogliato facendogli delle foto. E se uno non sa o non riesce a difendersi deve essere protetto dalla società. L’ultimo anno nella categoria “giovanissimi” è stata davvero una sofferenza. Ora il ragazzo ha trovato una nuova squadra, quella dei compagni di scuola. Anche così potrà riprendere più fiducia, più autostima senza sottostare al prepotente o al bulletto di turno nell’indifferenza totale di una società che è pure affiliata ad un grande club".

Per il papà deluso c’è tanto da lavorare: "Anche in provincia la formazione dell’uomo e dell’atleta non avviene ma si guarda solo al risultato e questo impatta in una serie di dinamiche. Chi entra in contatto con i ragazzi deve avere formazione e sensibilità, io invece ho trovato persone di campo ma molto “fredde“ senza alcuna empatia. E poi il solito “clientelismo“, con il ragazzo il cui padre è amico del presidente che viene considerato di più rispetto agli altri. In un ambiente di questo genere i giovani calciatori crescono con la regola del più prepotente. E non è giusto".