
Il boss è stato arrestato il 12 giugno 2024 dalla polizia di Stato di Varese (foto di repertorio)
Milano – Era chiamato il “Grande Capo” da amici e sottoposti. Un uomo che con pazienza e precisione, quasi come il Gus Fring della popolare serie Breaking Bad, era riuscito a costruire una macchina spietata e meticolosa con un solo fine: spacciare droga in Nord Italia. Il boss, un albanese residente nell’hinterland di Varese, aveva messo in piedi una struttura piramidale che somigliava più a una multinazionale che a un’organizzazione criminale: ha reclutato 67 affiliati al suo servizio e per anni ha gestito il traffico nei minimi dettagli. Finché il 12 giugno 2014 la polizia di Stato non è riuscito ad arrestarlo. Ora gli agenti della Divisione anticrimine sono riusciti in un secondo colpo: il 20 marzo gli hanno sequestrato beni per oltre 300 mila euro.
Organizzazione meticolosa
Il boss è stato condannato più volte per reati legati alla droga e ora l’operazione di polizia ha sollevato l’ennesima polvere su una rete di spaccio di cocaina e hashish ben radicata in tutte le province lombarde e in alcune aree dell’Emilia Romagna.
Ma l’organizzazione non si limitava al semplice traffico di stupefacenti: il “Grande Capo” orchestrava l’ingresso in Italia di giovani connazionali, che faceva entrare con visto turistico (che permetteva loro di soggiornare fino a 90 giorni nel territorio Schengen). Una volta arrivati in Italia, i nuovi reclutati venivano inseriti nel sistema: alloggio, auto intestate a prestanome, cellulari e droga per iniziare l’attività di spaccio.
L’aspetto più impressionante di questa operazione criminale non risiede tanto nella violenza, quanto nella sua capacità di nascondere ogni traccia. Non c’era spazio per il caso, e ogni dettaglio, dall’auto intestata a prestanome fino al sistema di comunicazione anonima tramite WhatsApp e piattaforme criptate. Ogni movimento, ogni scambio, ogni fase veniva accuratamente pianificato in spazi compartimentati. Un capannone fungeva da deposito, dove le auto dei corrieri, le droghe e le armi venivano stoccate e prontamente distribuite.
La “base call-center” dello spaccio
Per sfuggire alle intercettazioni, l’organizzazione aveva allestito una sala operativa in un appartamento apparentemente innocuo, dove un operatore riceveva le ordinazioni dei clienti via WhatsApp e le inoltrava ai pusher tramite piattaforme anonime. Quello era il cuore di una rete che operava silenziosa ma inesorabile, sempre in cerca di nuovi consumatori e di nuove piazze da colonizzare.
L’intuizione boss albanese risiede nel suo approccio manageriale: senza lasciare nulla al caso, aveva trasformato il suo business in un modello replicabile, in cui ogni affiliato aveva un ruolo specifico, dalla gestione delle consegne alla sorveglianza, fino alla contabilità. Il suo controllo era totale.
La maschera della normalità
In tutto questo, il boss era riuscito a mantenere una facciata di normalità. Pur essendo coinvolto in una delle reti criminali più sofisticate della Lombardia, il “Grande Capo” risultava nullatenente e viveva con la sua famiglia in una casa intestata al fratello, suo alleato in affari. L’attività criminale era camuffata da una pizzeria d’asporto che generava entrate lecite, ma ben al di sotto della ricchezza che l’organizzazione criminale produceva.
Come per ogni impero che si rispetti, il denaro circolava attraverso canali legittimi, ma il vero flusso proveniva dalle transazioni illecite, con bonifici sospetti e versamenti in contante che tracciavano la via di un business dalle dimensioni colossali.
La scia di denaro: un patrimonio da 300 mila euro
Visti i profitti generati dallo spaccio, era stato recentemente acquistato anche un capannone intestato ai genitori, usato per supportare la logistica del traffico di droga. Nel complesso, il sequestro patrimoniale ha riguardato tre unità immobiliari, tra cui il capannone, quattro rapporti bancari e finanziari e un’automobile.
Il valore complessivo di questo patrimonio, in attesa di valutazione da parte dell’amministratore giudiziario, è stimato oltre i 300 mila euro. Il sequestro è stato emesso dal Tribunale di Milano e l’azione è stata disposta su proposta congiunta del Questore Carlo Mazza e del Procuratore della Repubblica di Varese.