GABRIELE MORONI
Cronaca

Stefano Binda e l’indennizzo tagliato: “Stato bottegaio, tira sul prezzo. E Lidia Macchi ancora non ha giustizia”

Varese, parla il 57enne assolto dall’accusa di aver ucciso la studentessa nel 1987: la quinta sezione della Corte d’appello di Milano ha ridotto il “risarcimento” per ingiusta detenzione di quasi 100mila euro

BINDA

Stefano Binda, 57 anni, a un’udienza del processo per l’omicidio di Lidia Macchi

Brebbia (Varese), 25 settembre 2024 – Stefano Binda il giorno dopo. Inevitabile il ritorno sotto i riflettori per il 57enne laureato in filosofia di Brebbia dopo che la quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano ha ridotto da 303.277,38 a 212.294,24 euro l’indennizzo per l’ingiusta detenzione sofferta, 1.286 giorni in carcere prima di vedere allontanata da sé l’accusa terribile, infamante, di essere l’assassino di Lidia Macchi, la studentessa di Varese massacrata a coltellate la sera del 5 gennaio 1987, nelle vicinanze di Cittiglio. Dopo essere stato definitivamente, pienamente assolto dalla giustizia penale, si ritrova alle prese con quella contabile.

Stefano Binda, commenti alla decisione dei giudici dell’Appello milanese?

“Il primo dato è che sono stato di nuovo riconosciuto meritevole di indennizzo. E questo è un dato positivo. Poi era stato azzerato tutto. In più, io stesso individuo certi profili della sentenza sui quali intendo riflettere e nel confronto con i miei avvocati (Patrizia Esposito e Sergio Martelli - ndr) mi riservo la decisione di un eventuale ricorso”.

La sentenza parla di nessun dolo ma di colpa lieve, di dichiarazioni “contorte o evasive” che potrebbero avere contribuito, almeno in parte, all’errato convincimento della sua colpevolezza e all’arresto. Come esce da questa vicenda il suo rapporto con lo Stato?

“Dalla mia vicenda esce l’aspetto dello Stato bottegaio che traccheggia, tira sul prezzo, per non cacciare un euro. Come se si immaginasse uno Stato che dà diplomi di merito a pioggia e poi non spende un solo euro per pagarli. Considerato quali sono i competitor dello Stato, ossia il diritto e il mercato, mai come adesso c’è bisogno di uno Stato vero, cioè di sovranità popolare, cioè di democrazia”.

E sul piano della giustizia cosa le è rimasto?

“Un problema della mia vicenda è stato che la Procura generale, brandendo giustamente la potestà punitiva dello Stato, ha finito però per rendere ingiustizia a un cittadino innocente e a non rendere giustizia a una cittadina italiana vittima, massacrata a vent’anni”.

Com’è oggi la sua vita?

“Continuo con i volontari di La Valle di Ezechiele nell’impegno per rendere più vivibili le nostre carceri”.

La vicenda

Stefano Binda viene arrestato all’alba del 16 gennaio 2016 nella sua abitazione di Brebbia. In primo grado è condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Varese. La sentenza viene ribaltata il 24 luglio 2019, a Milano, quando i giudici di secondo grado lo assolvono per non avere commesso il fatto. Nell’ottobre del 2022 la quinta sezione della Corte d’appello gli riconosce il diritto a un indennizzo di oltre 300mila euro. Il primo colpo di scena non tarda ad arrivare.

Il sostituto procuratore generale Laura Gay firma il ricorso in Cassazione. Non si tratta, è la tesi del sostituto pg, di entrare nel merito di un’assoluzione ormai definitiva, ma di valutare se il comportamento tenuto dall’indagato (che in talune occasioni si è avvalso della facoltà di non rispondere, peraltro un suo diritto) possa essere stato un elemento sui cui fondare la misura del carcere.

Secondo la Procura generale, “con i suoi silenzi”, Binda avrebbe “contribuito all’errore” della sua carcerazione. Nel giugno di un anno fa la Suprema Corte accoglie il ricorso e rimanda la questione, ancora, alla quinta sezione dell’Appello milanese per un nuovo giudizio.