Varese – C’era anche lei, fra le mille persone che hanno sfilato per Varese contro la violenza di genere e per Lavinia Limido, dopo il terribile fatto di sangue al rione Casbeno. Si è ritrovata con gli altri in piazza Monte Grappa, ha camminato per il centro storico, ha visto la basilica di San Vittore, stracolma, quel giorno lontano, per i funerali della figlia. Paola Bettoni è la madre di Lidia Macchi, la studentessa uccisa la sera del 5 gennaio del 1987, poco prima del suo ventunesimo compleanno. Furono ventinove le coltellate che straziarono Lidia. Il coltello impugnato dall’ex marito, Marco Manfrinati, ha ferito gravemente Lavinia e ucciso il padre, Fabio, accorso in suo aiuto e trafitto da una ventina di fendenti.
Signora Bettoni, cosa l’ha indotta a essere presente?
"Conosco il papà e la mamma di Lavinia. La società del signor Limido è in via Menotti, a pochi passi da casa mia, in quella che una volta era la villa dei suoi genitori. Ci conoscevamo da cinquant’anni. Ma a parte questo, era giusto manifestare contro la violenza sulle donne. Ogni volta che sento che è stata uccisa una donna, rivedo scorrermi davanti la mia tragedia. Passa il tempo, ma la ferita rimane. Il coltello che ha ucciso Lidia gira sempre nella piaga. Il dolore è lo stesso. Il dolore per un figlio perduto te lo porti fino alla tomba".
Farà visita a Lavinia Limido, quando sarà possibile?
"Quello che ha subito le rimarrà per sempre. Non la conosco di persona. Magari, in futuro, andrò a trovarla".
Cosa può essere messo in campo per arginare i femminicidi, la violenza?
"Prevenire. Però, se non si cambieranno le leggi, le donne continueranno a morire. Sono invitate a denunciare, denunciare. Ma poi vengono protette?".
Com’è la sua giornata della Festa della Mamma?
"Dolce e triste nello stesso tempo. Siamo in venti, famiglia, amici. Ci sono i miei due figli e i sette nipoti. Li ho sempre vicini. I nipoti più grandi crescono, i piccoli sono dei bambolotti da coccolare".
A distanza di tanti anni riesce ancora a sperare nella verità per Lidia?
"La verità. Certo che ci spero. Spererò fino al mio ultimo giorno di vita".
Un giorno lei ha fatto la differenza fra sé e la madre di chi le ha strappato sua figlia.
"Certo. Ho detto e lo ripeto che preferisco essere la mamma di Lidia Macchi, la vittima, piuttosto che essere la mamma del suo assassino. Sono passati quasi quarant’anni, ma Lidia viene ricordata ancora. Quando esco cerco di passare inosservata. A volte metto la mascherina che si portava al tempo del Covid. Mi riconoscono lo stesso. Le signore mi fermano al supermercato: “Lei è la mamma di Lidia Macchi? Le posso dare un bacio?”".
La saga giudiziaria legata alla tragedia della giovane varesina avrà ancora un’appendice il 21 giugno, a Milano. Sarà la quinta sezione penale della Corte d’appello a decidere sulle sorti dell’equa riparazione richiesta allo Stato da Stefano Binda per l’ingiusta detenzione patita. Arrestato a metà gennaio del 2016 nella sua abitazione di Brebbia, Binda aveva riacquistato la libertà solo nel mese di luglio del 2019, quando il verdetto della Corte d’Assise d’appello di Milano aveva cancellato la condanna all’ergastolo uscita in primo grado a Varese. L’assoluzione piena per non avere commesso l’omicidio della giovane varesina era stata confermata dalla Cassazione. Completamente scagionato e definitivamente libero, il 56enne laureato in Filosofia si era visto riconoscere dalla Corte d’Appello di Milano un risarcimento di oltre 300mila euro per i 1.286 giorni trascorsi in carcere da innocente. Ma un anno fa, dopo il ricorso della Procura generale milanese, la Cassazione aveva annullato l’ordinanza di risarcimento e rinviato alla Corte d’appello.