
Giorgio Paolillo
Varese, 21 febbraio 2016 - «La sera di ogni 5 gennaio penso: “Forse a quest’ora Lidia Macchi veniva uccisa”. Lo stesso ogni volta che m’incontro con qualcuno dei miei vecchi collaboratori: è sempre il primo ricordo». Giorgio Paolillo ha 68 anni. Ha diretto la squadra mobile di Varese dal 1986 al ‘93. Ha indagato sull’omicidio di Lidia Macchi. Ha sentito il peso delle polemiche e quello, forse ancora più opprimente, dei silenzi, mentre attorno veniva esercitata più di una pressione e si sprigionava più di un veleno.
Come vide nascere il caso Macchi? «Giorgio Macchi telefonò alle undici di sera del 5 gennaio del 1987: la figlia non era rincasata per cena come aveva promesso. Era già stato in ospedale a Cittiglio. Da Paola Nodari, l’amica ricoverata a cui Lidia aveva fatto visita, aveva saputo che era uscita dall’ospedale verso le 20.20. Furono avvertiti le altre centrali operative e i carabinieri. Chiamammo gli ospedali. L’indomani mattina il padre formalizzò la denuncia di scomparsa».
E si arrivò alla mattina del 7 gennaio. «Giorgio era venuto da me verso le 9. Mi informò che gli amici di Lidia si erano messi alla sua ricerca con una decina di auto. Mi arrivò la chiamata dalla centrale operativa: era stata trovata. «Giorgio, gli dissi, vada a casa. Ci sentiamo dopo». Forse capì. Passai in Procura a prelevare il dottor Abate. Sul posto c’erano tre degli amici di Lidia, spaventatissimi. Quando avevano visto la sua Panda, avevano chiamato 112 e 113. Il cadavere era coperto con un cartone. Attorno niente sangue. Ce n’era una macchia sul sedile del passeggero. I carabinieri avevano bloccato il passaggio. Uno venne ad avvertirmi che un prete voleva benedire il corpo. Era don Antonio Costabile. Impartì la benedizione, si raccolse in preghiera».
Fra gli investigatori ci fu collaborazione? «Ci dividemmo i compiti. I carabinieri presero la strada del maniaco, sapevano delle donne molestate nel parcheggio davanti all’ospedale di Cittiglio. Noi seguimmo la pista dell’entourage di Lidia, della sua cerchia. Incominciammo a sentire gli amici di scuola, dell’università, di Comunione e Liberazione, gli scout. Un mare di ragazzi».
Che atteggiamento tenne Comunione e liberazione? «Ci trovammo di fronte a un muro. Intendiamoci, nessun depistaggio. Ma Cl fece ogni sforzo per allontanare dal gruppo i possibili sospetti. C’erano persone che si presentavano con gli avvocati anche se erano solo testimoni. Pare che Cl avesse messo a disposizione dei legali. Era molto potente. Era di Cl il sindaco di Varese, Maurizio Sabatini. C’erano degli onorevoli. Venne anche presentata una interpellanza parlamentare».
Anche i giovani di Cl non collaborarono? «I ragazzi si chiusero. Ripeto: nessun depistaggio. Però incontrammo delle difficoltà. Si cercava di metterli a proprio agio e spesso ci sentivamo dire “Mi faccia delle domande”. Oppure si limitavano a dire sì, no, non ricordo».
Ricorda Stefano Binda? «Non ricordo se ascoltammo anche lui. Ricordo il cognome Sotgiu (Giuseppe Sotgiu, all’epoca amico stretto di Binda, ndr)”.
Le autorità ecclesiastiche? «In un un paio di occasioni mi trovai a parlare del caso Macchi con il prevosto di Varese. Era convinto che si trattasse di messe nere. Oppure pensava a un balordo. In buona fede, si capisce».
Come arrivaste a interessarvi a don Antonio Costabile? «Nella borsa di Lidia c’era uno suo scritto dove si parlava di un amore impossibile. Pensammo a un prete o a un uomo sposato. Andai da don Antonio in canonica a San Vittore. Mi disse che la sera del 5 gennaio era in canonica a preparare l’omelia per la messa dell’Epifania. Era assistente degli scout. Gli chiesi se come scout possedeva un coltello. Mi rispose che lo aveva, ma non lo trovava. Quando lo ascoltò il dottor Abate confermò tutto tranne una circostanza: la sera del 5 non era in canonica, bensì a una riunione di sacerdoti. Li convocammo subito. Erano tre preti e un laico. Era il mese di giugno e si votava. Confermarono la riunione. Li incalzammo, chiedemmo i particolari, chi era arrivato per primo, dov’erano seduti. Li arrestammo tutti e quattro per falsa testimonianza. Rimasero in questura dalle quattro del pomeriggio fino alla mattina dopo». Come finì? «Ammisero che non era vero e che avevano voluto dare una mano a don Antonio. Pensavano che fosse una persona ingenua e si trovasse un po’ in difficoltà. Don Antonio non fu mai formalmente indagato».
Conseguenze? «Un avvocato di Milano denunciò Abate e me per sequestro di persona».