Varese, 29 marzo 2018 - Un delitto crudele. Per futili motivi. La richiesta dell’accusa è l’ergastolo. Il sostituto procuratore generale Gema Gualdi parla per sei ore e mezzo davanti alla Corte d’Assise di Varese chiamata a giudicare Stefano Binda, accusato dell’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di Comunione e Liberazione, trucidata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987 sulla collina del Sass Pinin, nel territorio di Cittiglio. L’omicidio di una personalità bordeline, portata all’alterazione, alla manipolazione della verità.
«Lidia muore 20-30 minuti dopo un rapporto sessuale che per lei è il primo. L’imputato uccide una ragazza che è innamorata di lui, che sa della sua tossicodipendenza, che vorrebbe aiutarlo. Lidia lo ama, anche se sa che il futuro è difficile da organizzare, nella sua borsetta c’è una lettera indirizzata a un amore impossibile. Viene con crudeltà. Crudeltà in quei colpi reiterati, tanto violenti che lasciano ematomi ai bordi delle ferite, inferti per provocare la morte. La crudeltà di lasciarla lì, a morire soffocata dal suo stesso sangue». È elevato, intenso (e anche problematico) l’attacco della requisitoria.
«Più di trent’anni - scandisce la rappresentate dell’accusa -. Quanti anni di dolore, silenzio, buio, omertà, distruzioni di prove, depistaggi, acquattamenti, coperture reciproche». Sullo schermo iniziano a scorrere le immagini del corpo martoriato e mamma Paola si scioglie in un pianto silenzioso. Processo indiziario. Ma per il sostituto pg il quadro è univoco e convergente. L’amicizia fra Lidia e Binda è testimoniata da più d’uno, anche da Stefania, sorella della vittima. A Milano frequentano lo stesso gruppo di Cl. Il cinquantenne di Brebbia è sprovvisto di alibi per la sera dell’omicidio. Sostiene di essere stato presente a un soggiorno-vacanza della Gioventù Studentesca a Pragelato, ma dei circa cinquanta partecipanti lo ricordano solo in due. “In morte di un’amica”, la prosa anonima recapitata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali di Lidia, con particolari che solo l’assassino può conoscere.
Patrizia Bianchi, amica del cuore di Binda, la vede pubblicata e ravvisa somiglianze con la grafia di quattro cartoline ricevute molti anni prima da Stefano. La consulenza grafologica conferma che si tratta della stessa mano. Anche la sorella Patrizia, dopo averla vista in televisione, dice a un amico di avere riconosciuto la scrittura di Stefano. La consulenza merceologica, affidata al Ris, conclude che il foglio su cui è vergato “In morte di un’amica” proviene da un quaderno ad anelli sequetrato nell’abitazione di Binda: carta riciclata, stessa composizione chimica, identico l’invecchiamento, uguali i difetti dei fori. Non solo per questo le dichiarazioni di Patrizia Bianchi sono l’architrave dell’accusa. Quando la ragazza chiama Stefano per dirgli che è stato scoperto il cadavere di Lidia ma non si trova l’arma che l’ha uccisa, ne riceve una reazione violenta, innaturale.
Binda preleva l’amica in auto, le dice che deve consegnare una lettera ai Macchi. Sul pavimento della vettura c’è un sacchetto di carta che deve contenere qualcosa di pesante perché resta immobile per tutto il tragitto. Arrivati al Parco Mantegazza, Binda scende e si libera dell’involucro. Dopo una messa a San Vittore in suffragio di Lidia, Binda dice a Patrizia: «Tu non sai cosa sono stato capace di fare». E cosa significa la frase «Stefano è un barbaro assassino», sul retro di una versione di greco. Perché Binda strappa dalle agende i fogli dei giorni dell’omicidio?