Varese, 24 luglio 2018 - Stefano Binda è l’assassino di Lidia Macchi. Un assassino crudele, che dopo avere straziato la sua vittima con 29 coltellate, l’ha abbandonata, agonizzante, nell’allucinante scenario notturno dei boschi del Sass Pinin, a Cittiglio. È la sera del 5 gennaio 1987. Binda uccide Lidia, sua amica (e forse innamorata di lui, colto, intelligentissimo, all’epoca nel tunnel della droga), sua compagna di militanza in Comunione e liberazione, di liceo e di biblioteca. La uccide per coprire la violenza a cui l’ha sottoposta.
In 197 pagine il giudice estensore Cristina Marzagalli motiva la sentenza con cui, lo scorso 24 aprile, la Corte d’Assise di Varese ha condannato all’ergastolo il quasi cinquantunenne laureato in filosofia di Brebbia. La prosa anonima “In morte di un’amica”, recapitata alla famiglia il giorno dei funerali di Lidia, «contiene certe descrizioni e il riferimento a particolari che soltanto l’assassino poteva conoscere». Il «velo strappato», metafora della verginità violata della vittima, lo «strazio delle carni», la «notte di gelo», le «stelle così belle». Binda ha sempre negato di esserne l’autore. Al contrario la consulenza grafo-tecnica, eseguita per la procura generale da Susanna Contessini, ha concluso che«non può ammettersi altro autore diverso da Binda stesso». Secondo la consulenza merceologica, il foglio usato proviene da un quaderno ad anelli sequestrato nell’abitazione di Binda. Appartengono all’imputato anche gli altri scritti trovati in casa, a cominciare da quello, “Stefano è un barbaro assassino”. "In morte di un'amica" è l’architrave dell’accusa e oggi della condanna. «La forte gravità indiziaria - annota la sentenza - della lettera anonima spiegherebbe uno dei ‘depistaggi’ evidenziati dal Procuratore Generale nella sua requisitoria, ed esattamente il tentativo di far deporre l’avvocato Piergiorgio Vittorini sulla circostanza, appresa da un suo cliente, che l’autore della lettera anonima ‘In morte di un’amica’ sia persona diversa dall’imputato». Il presunto autore «si è palesato all’avvocato Vittorini proprio in corrispondenza dell’inizio del processo, a trent’anni da delitto, chiedendogli di effettuare una (impossibile) deposizione ‘per procura’; ha agito con modalità tali da assicurarsi il permanere dell’anonimato, in quanto coperto dal segreto professionale del difensore». La deposizione del legale bresciano avrebbe «sollevato il dubbio circa la riferibilità della lettera all’imputato, senza consentire alla Corte di verificare la attendibilità della fonte, perché il nome del cliente è coperto dal segreto professionale». Viene escluso un mitomane, anche perché si sono verificati «altri inusuali tentativi di ‘depistaggio’».
Per la lettera pubblicata su un quotidiano, a firma di un residente di Varese, si è accertato che ignoti avevano forzato l’account del cittadino, «contro la sua volontà e superando il muro della password, per utilizzarne la postazione telematica». Per la sentenza «soggetti - allo stato ignoti - hanno ordito azioni d’inquinamento». La parola “depistaggio” cade anche in un altro passaggio: la distruzione dei reperti, in particolare i vetrini con il liquido seminale dell’assassino. Per i giudici non si tratterebbe solo di casualità o incuria. Sono condivise le osservazioni del sostituto procuratore generale Gemma Gualdi «in ordine a plurimi ‘depistaggi’ che hanno caratterizzato il caso». «La distruzione dei vetrini, e ancor più le sue anomale modalità, costituiscono uno dei misteri di questo processo. Può accadere che i reperti vadano distrutti a distanza di tempo, ma in questo caso sembra esulare dalla normale casualità».