Varese, 21 giugno 2024 – Stefano Binda non ha ucciso Lidia Macchi, la studentessa varesina di soli 20 anni, massacrata con 29 coltellate nel gennaio 1987 e trovata senza vita a Cittiglio. A provarlo un’assoluzione piena in Appello, i giudici scrissero che non c’erano nemmeno degli indizi a carico dell’uomo, di Brebbia, arrestato nel 2016 per un assassinio che quindi non aveva commesso. La Cassazione ha definitivamente confermato la sua estraneità ai fatti. Stefano Binda è stato ingiustamente detenuto per tre anni, non c’era pericolo di fuga (erano passati 30 anni), non c’era pericolo di reiterazione del reato e nemmeno di inquinamento probatorio. Condannato all’ergastolo in primo grado, è poi sempre stato assolto nei seguenti due gradi di giudizio.
Per quei tre anni di ingiusta detenzione Binda, assistito dall’avvocato Patrizia Esposito, ha chiesto allo Stato 300mila euro di risarcimento (una somma ricavata moltiplicando la cifra standard di 235,87 euro per i 1286 giorni trascorsi in carcere, ndr). Risarcimento accordato dalla Corte d’Appello di Miano. Non fosse che la Cassazione ha accolto il ricorso della Procura generale meneghina rinviando gli atti alla Corte d’Appello di Milano affinché venga rivalutata l’assegnazione o meno del risarcimento, per cui si ricomincia da capo.
E oggi, venerdì 21 giugno, la nuova udienza è stata discussa alla presenza di Patrizia Esposito e Sergio Martelli, i difensori di Binda, e del sostituto Pg Laura Gay che, davanti alla corte, si è rimessa alle ragioni della sua impugnazione accolte dalla Cassazione.
L’avvocato Esposito, per contro, ha ribadito che non vi erano, all’epoca dell’arresto, ragioni per la custodia cautelare in carcere. Non solo: Binda si è sì avvalso davanti al Gip della facoltà di non rispondere, come nel suo pieno diritto, ma solo dopo aver parlato davanti al Pm per circa otto ore ribadendo la sua completa estraneità ai fatti. Un’udienza lampo alla quale Binda non era presente. La corte si è riservata.